POESIA: “Strazianti sussuri dell’anima”
Strazianti sussurri dell’animo.
Antonio aveva avuto da sempre nell’animo l’idea di scrivere una poesia vera. Una di quelle poesie che, una volta lette, rimangono impresse, per sempre, nell’anima e nella memoria di ogni persona capace di recepire il senso di: “amor che al cor gentil ratto s’apprende.”; ma aveva sempre rimandato a questa evenienza pensando che al titolo della poesia si sarebbe associato immancabilmente il suo nome: Antonio. Cosa, questa, che lo corrucciava parecchio. Riteneva questo nome non adatto ad un poeta. “Avrebbero potuto darmene un altro, Alessandro, per esempio”, pensava. Compativa nello stesso tempo i suoi genitori perché a loro non era stata data la possibilità di avere la sua cultura. Un’altra ragione dei suoi indugi era inerente al suo lavoro: faceva il bidello. Anche questa occupazione sarebbe stata sottolineata allorché la sua poesia sarebbe venuta alla luce e passata al vaglio della critica. Si consolava però pensando che altri uomini grandi, prima di lui, avevano svolto lavori ben più umili. Così, un giorno, anzi una sera molto tardi, quando a causa di questo pensiero non riusciva a dormire, si alzò dal letto, prese una penna, un blocco note, si sedette al tavolo e assunse l’atteggiamento riservato, confacente con la dignità propria di un poeta intento ad attingere i suoi versi dal cielo puro della poesia. “Un giorno o l’atro doveva pur accadere”, commentò con se stesso. Ripercorse con la mente i passi più significativi della sua vita e si fermò su di un episodio che gli era sempre stato caro e che custodiva nei luoghi più recessi dell’anima : quella ragazza con i capelli neri, uscita dal collegio in occasione della festa del paese, che lo aveva guardato per tutta la durata della processione e poi, all’imbrunire, quando stava per salire la scala esterna di casa sua ,si era girata per guardarlo ancora, con quel gesto della mano con cui si scostava i capelli dal viso per meglio osservarlo e fargli vedere i suoi occhi luccicanti. Quello sguardo limpido, non equivoco, pieno d’amore per lui, Antonio non lo aveva mai dimenticato, anzi aveva dato un senso alla sua vita. Ancora, a distanza di anni, conservava questo ricordo nella parte intoccabile dell’anima, come a non danneggiarne l’immagine scolpita nella pellicola della memoria con l’uso rivangante dei ricordi. Quel momento, Antonio, l’avrebbe saputo descrivere in modo poetico. Volse lo sguardo verso la finestra socchiusa e vi scorse, tra il telaio ed il battente, uno spicchio di cielo stellato. Antonio rimase impietrito. Un ricordo lo riportò sui banchi di scuola lontano negli anni, quando il suo professore di lettere, in cattedra, con i capelli spioventi su ambedue i lati della fronte, commentava i versi del “Poeta”: <<Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea ancor per uso a contemplarvi sul paterno giardino scintillanti, e ragionar con voi dalle finestre di questo albergo ove abitai fanciullo>>. Gli venivano in mente le parole non udite, ma intuite, del professore, quando il preside gli rispose: <<Non se la prenda, professore, un giorno capiranno, anche a loro capiterà di ritornare alla casa dei loro padri e ragionare con le “stelle scintillanti dell’Orsa”, allora questi commenti entreranno nell’anima senza lo sforzo del pensiero>>. Antonio trattenne a stento un singhiozzo. Ora i suoi occhi fissavano il vuoto. Quando si riprese, disse a se stesso:<< No, non posso toccarlo, questo mondo appartiene solo a “Lui”! Se tentassi di avvicinarlo con la mia penna lo contaminerei, e al nome, Antonio, si aggiungerebbe anche “plagio”. Rimase seduto, chino sul tavolo. Dalla vallata sottostante giungeva il coro notturno dei canti degli animaletti delle notti estive ed emise una voce: <<papà!>>. Si scosse e temette che sua madre dalla camera accanto avesse potuto sentirlo. Si accertò che la madre in quel momento dormiva e ritornò al suo tavolo. Poggiò la fronte sulle braccia incrociate sul tavolo fino a quando il sonno e la stanchezza lo vinsero. Si alzò e sedette sul letto, poi, pian piano, scivolò sotto la coperta ed il tepore lo portò in viaggio per orizzonti irreali. E nel viaggio sentiva che i pensieri si snodavano e li perdeva uno ad uno. Il giorno dopo era domenica. Antonio si svegliò quando il sole era ormai alto e filtrava attraverso le persiane della finestra. Cercò subito di riallacciarsi mentalmente ai pensieri profondi della sera prima. Ma ora le parole con cui li aveva tradotti le scordava, ed anche quegli stessi ricordi che lo avevano commosso, li sentiva sbiaditi, insignificanti, lontani. Ma ciò che maggiormente lo scoraggiava era che sentiva mancargli la capacità di legarli fra loro con un filo che avrebbe dato un valore poetico alla poesia. Ad un tratto udì il borbottio della madre che parlava con se stessa, proveniente dalla stalla :<<è quasi mezzogiorno e ancora dorme, Voleva fare anche il poeta! >>. Quella voce, si ricordava Antonio con amarezza, lo aveva sempre umiliato, aveva spento in lui la forza di uscire da quella sua vita inutile, ed ebbe, per un momento, un sentimento d’odio per tutto quello che gli stava attorno.
– 04/03/2017
Rocco Catalano
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