POESIA: Autoritratto
Sono il giallo, il bianco ed il violetto
dei fiori di campo d’estate, sbiaditi e asciutti;
e l’odore di braci verso sera, che nelle narici
inonda il borgo appena conosciuto,
o solo il mio quartiere di foglie morte.
Ed è vero, per pigrizia,
quando sembro un insignificante niente,
è per volontà d’essere edera
nel muro scrostato, di sole;
di trasformarmi in rosa
o di dissolvere in profumo
di caprifoglio o di magnolia.
Ma come un lago che si crede mare,
ondeggia con impegno e oscurità,
si appiattisce di bellezza e calma nell’istanza sconfinata del suo limite…
così questa mia carne forte è costretta ancora
a calpestare asfalto e silenzio.
Lo stesso silenzio d’infanzia, del giocattolo
abbandonato in cortile, del frutto del pianto
colto nel buio della stanza da letto
che forse passa solo grazie alle mie mani
quando stringono il tuo collo e le guance,
quando tagliano e graffiano e scavano per terra.
Percorrendo la strada allineata al passo della crisi dell’inverno, sono il ghiaccio della grondaia arrugginita. E se non analizzo,
se mi perdo di nostalgia davanti al capitello del mio egoismo,
se non ti guardo e sputo fumo,
quando mi riempio della luce che si riflette sulle maioliche dorate,
spero di fermare il tempo, livellare
e in un battito
contare nuovamente dallo zero all’uno mille volte, incurante di tutte le migliaia che mi pesano addosso.
Lo sforzo della bocca nel tuo piacere,
il pomeriggio itinerante resta vuoto,
più profondo della cima. In ogni città,
è nelle strisce di tramonto che entrano nei miei occhi dalle persiane abbassate,
nel cancello di vernice e nella compulsione giornaliera,
la mia casa.
| sorgente: http://www.poetipoesia.com/la-rivista/ – 22/01/2018