Massimo Triolo



POESIA: Volti di pietra

Le ore si stanno ammutinando, grani di sale
discendono le mie tempie.
Ore aperte sui cardini delle pagine,
come un culmine di sole nel cielo ferrigno.
Tu eri una voce così sincera e compita,
tu eri l’arco della tua schiena
e la morbida, calda fragranza dei tuoi seni,
tu eri una pazza saggia,
ed io ti ho seguita fino alla foce del tuo delirio.
Siamo incatenati a un passato il cui tempo
era una lusinga,
ora sembra abbiano tolto il velo
dai nostri occhi di sognatori.
Le ore si stanno ammutinando,
il viaggio è un’altalena di visioni,
un cuore edace di vibrante fiamma.
Abbiamo barattato il pane dell’amore
con cibi squisiti e sofisticati –
una volta ci bastava spezzarlo
e prenderne un tozzo a testa…
Non dovemmo mai regalarci fiori,
facevamo l’amore su quelli di campo.
Ne coglievamo per la nostra stanza lunare
che spazzava il cammino da ogni ingombro:
quando l’abitavamo come una sentina di poesia,
vicino alla polveriera dell’arte spinta
e a qualche canzone folk come dio comanda.
C’erano candele e incenso,
c’erano latte e whisky, vecchi spartiti,
poesie di Eluard e Majakovskij,
pettini d’osso con ciuffi dei tuoi fulvi capelli,
qualche disco Jazz e la giusta penombra,
pesanti tende di velluto porpora
che cacciavano il sole in un buco lontano,
e affiochivano grida e stridori dalla strada.
Quando tutto divenne ciarpame,
le nostre anime erano immobili
in una canicola di esacerbata stanchezza,
e i sorrisi radi e rassegati,
fissi nei nostri volti di pietra grezza.
Stavamo perdendo il controllo,
e non era la droga,
non la traiettoria dei nostri voli spezzati,
non gli ossari delle parole corse,
né la nudità reciproca delle menti.
Erano fiori di campo falciati dall’inverno.
Erano le nostre stesse voci ripudiate ed odiate:
io la tua, tu la mia –
un tempo stellari trapezi e ora cenere bagnata.
Le ore si stanno ammutinando,
un mondo impazzito
mi ha messo collare e museruola,
ripenso i perfetti archi delle tue lunghe unghie
che percorrevo con l’indice,
ripenso la tua gioia simile a una primizia
in una tarda primavera di tante piaghe in meno.
Questo sogno da desto mi costerà caro.
Ho visto il tuo spettro ciondolare
vicino alla mia aspra disapprovazione,
la tua anodina indifferenza ai miei insistiti sguardi,
il corsetto rovesciato in un angolo
e nemico delle dita che il tuo corpo,
non più fresco,
guadagnava alle sue forme –
ancora, in qualche modo, appetitose.
La penombra divenne fitto buio,
il tuo angelo custode disertò questa guerra
e il tuo volto s’indurì in una maschera di diniego.
Le parole divennero lame mordaci
corse sul taglio,
cagliò il latte, e il whisky non bastò più.
Vedi come ciò che è fresco e chiaro
come un mattino,
non sia altro che una visione fugace,
un inciso nel linguaggio esploso del tempo,
uno strumento di tortura fatto di carezze?
Le ore si stanno ammutinando,
il nostro vascello d’argento vortica in basso
in un maelstrom di disgrazia e oblio.
Incistato nel mio cuore,
simile a un male oscuro inciprignito,
il cancro del ricordo,
che ogni cosa congiura a nutrire
come impazzita carne del mio stesso sentire.

– 23/02/2017

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