POESIA: ODE AD AFRODITE
Candente il Ciprio lito
e tu nascevi, o Diva,
su la spuma che bruiva.
Immote nel nimbo aurorale
son le tratte carène,
ma il sale
d’equoreo lucore arde,
tutto è tumulto
ne le sue ime vene.
Levate son le buccine a l’annunzio,
in testa all’ampia schiera va Tritone,
e recan le Cinquanta il gonfalone
de la tua rosa,
disparsa sopra il flutto
ove si posa.
Benigna arride Dòride al tuo avvento
ed il concento
è clangore de i tridenti,
è gazzarra de la prole Nerèa,
è ridda d’eglantine aulenti,
è carola dell’Ore…
Sospinge il tuo cocchio marino
Favonio con alito lène,
e danza più innanzi il delfino,
di presso alle arene.
E Irène
Ti cinge del peplo,
e Dice d’un cinto t’adorna
d’ogni malìa,
d’ogni delizia pinto,
che a te ciascuno avvince.
Intonano le ninfe un greco carme,
lesbica immortale monodìa:
“Poikilòthron athanàt’Aphròdita…”,
ché tu con sororale bonomìa
le sgravi tosto dell’ambascia avita.
E il tuo sorriso tenue circonfonde
l’isola, il mare, il monte,
ed i tuoi labbri
son cresta dell’onde,
ed il tuo crine
è coltre fine d’elettro,
e la tua iri
è acquario de le vite marine;
in te s’aduna,
tutto si raccoglie,
lo spettro vario
de le forme equoree,
e le tue ciglia cenerine
argento le assomiglia,
mentre di perla
è la conchiglia.
Cipride, Dèspina, Etèra,
esmeralda matrona
de la Primavera,
sei pei tuoi fiori Anthéia,
ma suona
per tutto il tuo nome,
o Iside, Inanna, Freia.
Noi ti vedemmo
tra mezzo agli arboreti,
noi t’ascoltammo
tra le tue piante indome:
spoglia incedevi a mezzo dei vigneti,
il mondo ravvolgevi nelle chiome;
aurei cincinni si svolgevan lieti
tra le ginocchia ed oltre, insino ai piedi,
che in seno ad una tenue asimmetria
danzavano fedeli ai fini auleti.
Oh, voluttuosa letalgìa
possiede la tua corte,
e i còri intonano un’invitta salmodìa,
levano i calici,
salutano discinti il tuo consorte!
Più tardi al rezzo avvinti giacerete,
e muti salici
vi culleranno nell’erbacea rete;
sospinti i vinchi da l’aulente brezza,
ai vostri amplessi aggiungono
la vìride carezza.
Da l’Occidente giungono
canti di ierofanti:
i tuoi devoti levano inni santi.
Son forse coribanti
e recan muni
ai tuoi divini orti,
lanfa odorosa e opime libagioni
a bendisporti.
E tu non li sconforti:
corrusca appari al sommo dei pometi,
lustra, fulgente,
più che gli adamanti;
pallente, abbacinante, tra i pianeti
riluci come il grano d’alabastro,
invitto astro.
Ma quella schiera
muta ristà di presso alle tue porte
e di lontano
solo intravede l’arcade diletto,
soltanto può accennare la preghiera;
ancor non sa
che Amor si gode ne la Pura Morte,
non sa l’aspetto
ferale
del guardiano.
Sale
il tuo lume
tuttavia nel vespro
e chino è il mondo al segno
de la tua Mano
astrale;
in ogni cosa hai posto il santo pegno
del tuo Regno Immortale.
Noi ti vedemmo
ne le pure cose:
ne la sera estivale,
ove adorezza,
tu ci apparisti
in ogni cosa eguale:
ne la sanguigna drupa
dei gravidi ciliegi,
ne i mirti regi,
nell’aureo croco,
nel mentastro che aulisce,
nei divini asfodeli,
nel gioco del vento
con gli steli,
nella cupa
guglia dei cipressi,
nel rovere possente che stormisce
e nelle messi,
solari santuari;
ne le polle ascose
tra le stoppie del botro,
tra le coppie ridenti
di giunchiglie lacustri,
tra le illustri famiglie
de i formicai,
nel coleottero che stenta
tra i sarmenti,
negli occhi vai
del baldo purosangue
e nei tardivi armenti
cui il can pastore allenta
la guardia,
perché langue.
Eri la Luna
che per tutto inargenta
le selve della vergine Cidonia,
le selve ove s’effonde l’olifante
e al suon del corno,
finché sia giorno,
vanno i veltri affannati,
fuggon le belve,
con furia Calidonia,
vanno le torme errabonde ninfali,
finché rampolli il sangue dei cinghiali,
dilacerati da l’acuta canna.
Eri nell’Orèade che s’addorme
ne la capanna,
di canapa e di manna;
eri nel Fauno che ribolle estuoso,
che nel torpore
la coglie
e subito è l’amore
tra le foglie.
Nelle vicine, nelle lontane,
nelle divine cose umane
Tu Sei.
Eri la mano
dello sposo
romano
che il flammeo dissigilla dell’amante.
Alla fanciulla hai stretto
il corsaletto,
ove scintilla
tra le pieghe il petto.
Hai fissa al negro cèrcine la spilla
della bracciante,
nello zendaletto;
serrata hai la cuffietta
del lattante,
e similmente appari
nella massaia
che mena il dì per l’aia,
e nella dama
che si diletta.
Or sei fastosa,
or grama.
Or tra i gentili,
or tra i volgari
appari.
Degli alti cercatori
sei la gloria
che fecero Tintura
la Natura.
E ognuno ignora
se sia favola o storia.
Tu sei il pinnacolo
dell’alta cattedrale,
l’eburnea fattura
de la scultura,
e lo scalpello.
Tu sei il pennello
da la criniera bruna
che pinge il nembo
e la luna
e il temporale.
Tu sei il cenacolo
rinascimentale:
o Santa!
Tu sei l’inchiostro,
il calamo,
l’aedo che decanta!
Tu sei l’auledo,
il bosso,
la Musa che cattura,
o Natura!
Nel torso molle ed umido
del fante innamorato
che tra le braccia freme
del Signore,
e pure geme,
nel grembo dolce e tumido
di quella che l’allaccia,
e pur sospira,
ne la spira d’Amore,
per esso fatto alato
ed inverato,
tu sei la viva pira.
Questi prodigi ed altri,
e mille incanti tessi!
Oh, Tutto pareva ch’io potessi
nel muto giorno
nella pura Estate!
Che mi perdessi,
senza far ritorno,
tra le sue grazie alate.
Tutto pareva ch’io bevessi
nel puro giorno
nella muta Estate!
Ed era a noi il liquore meridiano
fausto presago
del vespero esperiano.
Volgemmo dunque presti a l’Occidente,
ove intopazia
il sereno,
ove mirò morendo
l’alta Hypatia;
di là, tra i vasti colli del tuo seno,
forse vanendo,
berrem Nepente. – 16/04/2017