Andrea Rinaldi



12 Novembre 2017

*** I GIORNI NOSTRI ***

 

Ero al fin di un dì come tanti,

quand’io il passato scrutavo

sui passi dei nostri antenati.

Nessun romore; quella notte,

nessun fastidio; solo

il mio pensiero

vagava tra i prodromi

del nostro destino.

«Strana, assai strana

è questa vita», mi dicevo;

«se non lo fosse,

neanche i grandi poeti

avrebbero voce»,

seguitavo, in quel buio

ove anche la follia

si confonde; si perde,

come in un manipolo

di soldati; come

nelle risa

fra un giullare e le genti;

come un’idea

che precorre la ragione.

Mi raccoglievo poi,

ancor pensoso;

«A chi fare aggravio

di questa umanità?»,

così vaneggiavo

e un barlume di quiete cercavo,

a cagion di ciò

che sovente noto,

negli ondivaghi uomini:

dai sotterfugi

alle passioni,

nei perigli e nei piaceri,

vive, muta il mondo,

fra amori e seduzioni,

nelle fole

e nelle vere parole,

vaga, fugge, e gira, gira

su se stesso,

ma per sventura

o per fortuna,

il moto suo

perpetuo non pare.

Non più assorto, a poco a poco

la silente voce tacevo,

e una vita in un sogno vivevo,

così bella, ch’esso era per certo

un sogno; ben sapevo;

così compiuta,

che nessun postumo ideale

avevo: nulla di divino.

D’improvviso tornavo;

mesto tornavo al vetusto cammino,

che tuttavia sembra sempre divino;

e come il vento sferza

i monti, dagli albori

ai vespri, quelle figure

la mente mia ripassava,

non senza un’altra impressione:

è spesso tardi per cambiare

un uomo appena nato,

e rara è l’impresa

che lo desta,

dalla sua felicità.

 

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