Bonifati Mark



POESIA:
Ulisse e La Nuova Sirena

La notte insonne cantò d’Odisseo

incatenato, in nave viaggiante.

Scilla e Cariddi: bramar ‘l corteo

de le Sirene, di cui l’inebriante

canto e profumo volèa sentir

anche a pagar ‘l non far avante.

Egli sa che si potèa, sì, pentir

di aver riposto tal fatta Fede.

Or dalle Muse lasciarsi ghermir.

Il prode om, salpato da Itaca,

cor da pirata avèa nel profondo.

Non sapèa star già fermo su un’amaca

come fa l’om che non viaggia pe’l mondo.

La canoscenza non basta: virtute

d’Amor volèa, si, il meditabondo

anche a patir d’arresto battute

quando qualcosa, al cor, forte, lede

e le speranze, trafitte, stan mute.

Son gl’altri òmini, resi già sordi,

buoni per porgli ’l petto in catene.

Essi, che furono porci balordi

quando di Circe patiron le pene.

Come in prigion, sta fermo sul legno

de la sua nave, lui. A le Sirene

volge l’orecchio, Ulisse. È pregno

del disìo di averne mercede

e di quel suon udir qualche suo segno.

E attendèa di voci il tumulto:

saranno tante le marine code

di chi canterà, d’Amor, il virgulto

che Odisseo potrà farne ode.

Ma su lo scoglio vedèa una figura.

Una soltanto, specchiarsi: sua lode

ella facèa di sé stessa, voltura

com’ chi ne l’acqua del mare si vede

e si riosserva più senza paura.

«Oh uomo prode, che guardi smarrito!

Che? T’aspettavi, ‘no stormo di pesci?

Qui a cantar per far l’om impietrito

non serve più: da le catene esci».

«Quel che tu dici, oh ammaliatrice,

io già mi aspetto: che col ver tu mesci

il falso che, nel poema a Beatrice

il Sommo narra e al mare concede.

Nel dir di voce tua istigatrice».

E Odisseo, ancor in domanda:

«Ma chi tu sei, che in mare ti specchi?»

Come chi cerca qualcosa in landa,

nel setacciar, al trovar alza li occhi,

la Musa nuova gli squadra sì il viso

com’ chi cerca, tra’l crine, i pidocchi:

«Tu che ti temi dal canto mio ucciso,

fai come chi a question soprassede.

Io son la innocua Ninfa Narciso».

«Ah! Il Poeta avèa ragione:

mescoli ‘l falso col ver, oh bugiarda!

Credi che a me manchi la cognizione?

Narciso è uom, non donna beffarda».

La Musa a lui: «Questione di sesso

fai tu a me che son solo ‘na barda?

Cosa ne sa Amor ch’ama sé stesso

di uomo, donna, che tratto prevede?

Basta nel mar non veder ch’un riflesso».

Ed egli a Lei: «Perché mi riveli

che d’ammaliar cagione si è persa?»

Lei: «Superfluo è ch’io ora ti sveli

ch’il nostro canto è voce riversa

in ciò ch’è Amor: la Grande Illusione».

«Inver, già so. Ogni lacrima tersa:

son meglio le catene ‘n costrizione.

Amor c’ha nullo amato Amor ricede:

così dovèa esser la canzone».

«Se così parli hai già, si, compreso

il mal d’Amor che non è ricambiato.

Per cui da me non temer d’esser preso».

«Il Vero Amor mai è perdonato

d’Amor Narciso che ora tu incarni.

N’esce piuttosto e sempre sventrato

fin nel profondo, fin sotto le carni».

Per ver commossa, la Musa procede

come ‘l leon de la fiaba di Narni.

«Io che son Diva, ‘l tuo animo tristo

leggo da qui e ti porgo un abbraccio.

Oh uomo dal cor spezzato già visto

odi il discorso che ora ti faccio.

Sai, quell’Amor non ti torna al mittente

sol perché tutto ora gira a casaccio.

Ricorda, uomo: non sempre si sente

ciò che a rafforzar il cor provvede.

In qualche mo’ devi esser paziente».

«Io son paziente, oh Musa, invero

com’è paziente chi attende sul letto

medicamento oppure ‘n bel cero.

Pur tuttavia Amor ch’ ho nel petto

nemo può spegner come fosse fiamma.

Esso è ben oltre ogni rigetto».

La Diva lo cinge, com’ fosse mamma

e con le braccia lo stringe e intercede:

«Oh buon Ulisse, una rara gemma!»

E lui: «Oh Musa, in me non c’è festa

se dal mio amore lasciato son solo.

Pur sott’ i colpi del Tempo che resta

cambiar non può, qual che fosse il dolo.

Esso è di quei davvero profondi:

per quanto sangue il cor abbia scolo

in infiniti universi et mondi

esso non può che celar quella Fede

come quei bimbi da’ bei visi tondi».

«Oh buon Odisseo», dice la Musa,

«muover mi fai, io che amo me stessa.

Narciso sente, com’ fossero fusa

d’un gattino che, in una matassa

ne cerca il bando: è questo che sei.

Pagata hai, e cara, la tassa

per amar oltre i Campi Elisei

Orsù, torna insieme a Diomede

nel regno che fa di tre volte il sei».

L’Amore Narciso ancor si sporge

dov’era già prima che l’om errante

curiosità fe’ pe’l viso che sorge.

E Odisseo, che già fu amante

più che amato, riprende la nave

ma in catene resta dolorante.

Lontano va da dov’eran le Dive

che presso lo scoglio avèan sede.

Mute, però, in silenzio andante.
– 27/05/2018

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