POESIA:Vincent Van Gogh
“Ha bisogno degli occhi della mente
chi cerca la Luce…
… poiché in sé porta la Tenebra ”
(Plotino)
Non c’è ebbrezza più forte del distacco
vertigine più grande del pittore
che prende distanza dalla propria tela.
Di quale specchio, amici, disponiamo
per ritrarre l’anima?
E quale luce vi vediamo brillare?
I miei quarantaquattro autoritratti
non sono che un’unica notte…
… una notte ancora più profonda
di quella che ogni volta mi assale
quando guardo me stesso allo specchio.
Disperazione o impossibile speranza?
Tutta la mia pittura poggia su questa domanda
e mi precipita addosso la gioia irrefrenabile
che uscire da sé…
… è il primo passo per non sentirsi soli.
Debole fui col mio prossimo ma non chiesi pietà.
Fui partecipe dell’infelice scena del mondo
e della bontà della creazione
che è insieme Tenebra e Luce.
La mia stessa vita
fu una storia di Tenebra e Luce,
di stelle in processione
dove ogni notte vagai disperato e indifeso
munito solo di tele e di colori
per strappare alle tenebre qualche piccolo segreto
nel traffico veloce e intenso dell#039;universo.
Una storia di singolare follia e genialit
espressa attraverso una forma di delirio
inconsueto…
… sovrumano…
… D’intensa felicità creativa e sensuale.
Avventure me ne capitarono tante…
… di tutti i colori.
Ad Arles,
incatenato a un letto di ferro
murato alle pareti e al pavimento
fui lasciato per giorni e giorni
alla mia terribile solitudine
di genio impetuoso e ribelle.
Gli artisti, si sa, vogliono uscire
Dall’inferno che li divora.
Nessuno di noi, poeta o pittore,
scrive o dipinge senza uno scopo.
Noi artisti, anzi, paghiamo un prezzo
di salute giovinezza e libert
senza mai pienamente goderne per noi stessi.
Nel mio straziante vagabondare di giorni
conobbi in Belgio
l’esistenza folle dei minatori di Wasmes
che lavorano sotto terra
tredici ore al giorno
e si nutrono soltanto di pane
patate e tocchi di formaggio.
Regalai loro un letto
per dormire io sulla paglia.
Fu allora che smisi di credere
alla bontà dell’universo
cominciando a dipingere
e a esprimere nel paesaggio
la lacerazione del mondo
la frenesia
la brutalità dell#039;esistenza
la sofferenza cupa e desolata della natura.
Fu così che presi confidenza con la morte
ancor prima di conoscere la vita.
E tutta la mia vita, da allora,
divenne una giostra,
una giostra d’amore per la pittura
girovagando nomade per strade
viottoli e campi… senza meta.
Compresi, allora, che il primo passo
verso la gioia e la salute
è il sentiero scomodo, scabroso della follia.
E fu così, nella follia,
ma oltre anche la scorciatoia
e la curva della stravaganza
che la natura mi rivolse la parola
sotto forma di luci …
… suoni…
… colori assoluti.
I colori degli alberi
fioriscono in anticipo in Provenza
e meli e peschi, nespoli e ciliegi
hanno un’allegria folle…
…inconfondibile
tipica del giallo accecante
di chi guarda dritto il sole
nel pieno della sua luce.
Di me dicono oggi che sia stato
il grande cantore della natura.
Ma quando mai!
Ho solo voluto spogliarla fino in fondo
dipingendo i campi violenti
e il volto di una terra
fedele a se stessa e ai propri cicli.
Fu quando incontrai una ragazza incinta
abbandonata dal suo uomo
che ebbi maggiore piet
per gli umili e gli oppressi.
Con lei divisi il mio pane
proteggendo la sua creatura
dalla fame e dal freddo.
E fui felice.
Indicibilmente felice di aiutarla e custodirla
tutelarla e difenderla dalla miseria.
Volevo sposarla
quella prostituta cattolica e piena di figli.
I parenti però mi diedero del coglione
e la gente mi rivolse l’accusa d’immorale.
Immorale? Coglione?
Al diavolo queste stronzate!
Che ne sappiamo noi del bene e del male?
Solo Theo, mio fratello, l’unico che mi abbia capito
aveva le idee chiare.
“Non è una donna che tu possa sposare, Vincent”
– così diceva –
“Aiutala soltanto…
… ma non la sposare”.
Vinsero loro, i benpensanti
ed io lasciai la ragazza
al suo destino da marciapiede
incalzato da infinite lacerazioni
e incontenibili tempeste.
Mi ripresi la libert
per correre di nuovo verso la mia pittura.
Ma il talento non bastò per sopravvivere a me stesso.
Fui sempre lieto e felice tra i più deboli
come allodola gioiosa a primavera.
Amai i tessitori e condivisi il dolore degli umili
dipinsi i poveri contadini mangiatori di patate.
Di rado i pittori raffigurano gente che lavora.
Ma io lo volli fare,
conquistato dalle loro mani nodose
piagate dalla fatica e dal lavoro dei campi
dalla sofferenza che non urla e non dispera
ma accetta il dolore di una vita
con la quale si scende a patti…
… o si muore!
Il mio incontro col dottor Gachet fu fatale.
Fu lui, medico di Auvers-sur-Oise,
il più malinconico degli uomini,
a spingermi sull’orlo del baratro.
“Ci sono animali – mi disse –
vegetali, pietre, addirittura stelle
che nascono di per sé malinconiche.
Figurarsi gli uomini!”
E m’incoraggiò ad andare per i campi
con tele pennelli colori e cavalletto sulle spalle
a spingermi verso la disperazione cosmica
alla ricerca della stella e del tramonto ultimo…
…finale!
Fu così che andai incontro al mio destino
conquistato dall’immensa pianura
con i campi interrati e sepolti sotto le colline viola,
vogliose insaziabili senza confini…
…smaniose d’infinito!
Fu quello il mio ultimo campo di grano
con corvi nerissimi che volano ad ali spiegate
in cerca di una preda.
E quella preda ero io.
Nel cimitero di Auvers-sur-Oise non c’è solennità.
Le tombe sono tutte uguali…
… monotone…
… cineree.
Più sono sfarzose e imponenti
più la morte appare invincibile
e si fa beffe dello sfoggio, del fasto, del ricordo.
Mio fratello Theo giace qui vicino a me.
Lui… sì… proprio lui,
mio benefattore e marcante d’arte
che non sopportava affatto
di avermi accanto da vivo.
Mio Dio… mio Dio!
Quanto strani e buffi sono i cimiteri!
Non ci dicono mai abbastanza…
… dei loro ospiti.
Attilio Scarcella
– 19/09/2018
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